La questione è antichissima, anche se solo in questi ultimi anni si è affacciata con tanta prepotenza. Se non ai principii antichissimi (ed in fondo banali) di Sun Tzu, il “maestro Sun” che nel quarto secolo avanti Cristo dettava ai discepoli cinesi “L'arte della guerra”, la si potrebbe far risalire a Silla, un paio di centinaia d'anni dopo.
Spedito con due sole legioni a riconquistare il Ponto mentre Mario si occupava delle questioni italiche, ad un certo punto il console si trovò di fronte lo sterminato esercito dei Parti, con nessuna possibilità di successo.
Fino a quel punto gli era andata bene. Aveva vinto una prima battaglia, si era alleato col secondo nemico contro il terzo, aveva stretto accordi, insomma aveva riconquistato a Roma un territorio pari a tre volte quello della penisola italica. Contro i Parti, però, non c'era nulla da fare. E lì scattò il momento del genio.
Anziché schierare le scarse truppe denunciando la propria debolezza militare, Silla le nascose dietro le colline, fece erigere un palco nella pianura e su quel palco, circondato da una piccola scorta di pretoriani in alta uniforme, puntò tutto sull'immagine.
Le orde dei Parti erano schierate a perdita d'occhio, i capi barbari discesero i declivi come recandosi ad una festa. Poi si scontrarono con la forza del simbolo.
Silla accolse i nemici seduto su uno scranno e drappeggiato nella toga con calma autorevole, l'aria superiore, quasi infastidita, del consul romanus. Dell'uomo dietro cui, da un momento all'altro, avrebbe potuto muoversi il più grande impero del mondo.
Non era vero. Roma in quel momento doveva pensare alle esauste finanze, agli acquedotti ed ai riottosi alleati italici, in caso di bisogno non avrebbe potuto inviare un solo rinforzo. Eppure la leggenda dice che, impressionati, i Parti ritirarono le loro orde. Oggi una simile trovata rientrerebbe a pieno titolo nelle categorie della propaganda di guerra.
Dico “le categorie”, poiché l'esperienza dell'ultimo trentennio ha aggiunto a criteri ben noti alcune soluzioni nuove, prima abbozzate, poi adeguate ed infine esattamente commisurate a tempi, ritmi ed esigenze di un fattore bellico relativamente nuovo. Fattore determinante almeno quanto le strategie militari e le potenze di fuoco, anzi tanto più decisivo quanto più ci addentriamo in un'epoca di conflitti “a bassa intensità”, non destinati a smuovere sentimenti quali il patriottismo, il conflitto fra civiltà, la sopravvivenza delle Nazioni.
Qui si parla ovviamente di informazione, anzi di quel particolare tipo di disinformazione che si usa definire propaganda legata ad eventi bellici. Converrà però intendersi su un punto preliminare.
L'”informazione” (o disinformazione) di cui parliamo va intesa in senso completamente nuovo, diverso. Non si tratta più di attività giocate sulla sovrapposizione (una “verità” al posto di un'altra), sulla sostituzione (un fatto scomodo celato da una brillante invenzione) o tanto meno sull'occultamento di una battaglia o di una vicenda (praticamente impossibile). Oggi si tratta soltanto di un lavoro fondato sulla tempistica.
Chi agisce in questo settore non immagina più di rapportarsi ad un poderoso, inarrestabile apparato che produce immagini e notizie, opinioni, sensazioni, reazioni, movimenti, posizioni politiche, cortei. Dunque, chi si occupa del settore non cerca più di orientare o piegare le news alle esigenze belliche. Deve solo evitare di provocare reazioni in frange più o meno consistenti dell'opinione pubblica interna.
Ecco una prima novità essenziale. Nelle guerre moderne il nemico non esiste più, se non nelle dimensioni di un wargame più o meno complicato.
L'avversario vero, se c'è, non è colui che sarà ucciso o distrutto, ma l'idea (la perplessità, la reazione) che può nascondersi in qualche piega dell'ambito domestico, della propria opinione pubblica.
Nella propaganda bellica da tempo accade che non si tratti più di aiutare questo o quel giornalista “amico” in servizi o contatti che facciano gioco al sistema. La mia impressione è piuttosto che da lunga pezza professori, ufficiali e psicologi preposti al compito lavorino non tanto sulla costruzione di un'immagine o la distruzione di un'altra quanto sui difetti, i vizi, i “buchi” del moderno sistema informativo.
In altre parole non si tratta più di attività che richieda intelligenza, preparazione ed una sorta di creatività, per quanto cinica. I grandi registi non sono morti soltanto nel cinema ma anche nella direzione mediatica dei grandi eventi internazionali. Sono scomparsi a causa di una semplice, desolante verità: l'apparato dell'informazione è malato, ed è sempre più facile usarne i punti deboli in maniera sistematica. Le grandi strategie non servono più, se non in casi particolari di cui parleremo. Non c'è più bisogno di geni: bastano i ragionieri della disinformazione.
I tempi dei media
La metamorfosi era obbligata. Dalla fine del secondo conflitto mondiale, con la parziale eccezione di quello di Corea (e quella soggettiva di Israele) non si è mai più verificata una guerra nella cui organizzazione mediatica si sia potuto far ricorso alla leva dell'appartenenza o del patriottismo per stabilire gli schieramenti, e dunque evitare immagini o notizie sgradite.
Nel mondo occidentale, dal Vietnam in poi, giornali e televisioni “favorevoli” o “contrari” hanno preso a schierarsi non più in base ad un qualsiasi senso di appartenenza (nazionalistica, culturale o civile) ma secondo criteri diversi e sempre più mutevoli.
Trenta o quarant'anni fa la nuova stella polare corrispondeva ad orientamenti politici che superavano la logica dei Blocchi. Poi, alla contrapposizione Est-Ovest seguì una nuova attenzione verso le fluttuazioni negli equilibri interni. Negli Anni Novanta - sempre dal punto di vista giornalistico - il criterio di scelta si concentrò nel puro e semplice appeal della storia del giorno. Oggi è legato a fattori infinitamente più semplici: costi e tempi di chiusura.
Forse un caso concreto può chiarire meglio la situazione. Alcuni anni fa, mi trovai fra i pellegrini spediti in Somalia per seguire la famosa operazione Restore Hope, quella preparata da cameramen sbarcati sull'Oceano Indiano prima ancora dei marines. Un giorno, via telefono satellitare, il giornale mi chiede un commento comunicandomi che tutte le prime pagine stanno “saltando” per via delle immagini (trasmesse dalla WTN) di una bellissima donna aggredita, picchiata, pubblicamente spogliata da una folla di diseredati.
In una secca didascalia (probabilmente stesa da un impiegato) qualcuno aveva scritto che la Venere nera era stata denudata e malmenata da gente che la disprezzava per l'essersi accompagnata ad un soldato americano. L'elemento che prevaleva su tutto era naturalmente quello del nudo, di una rilucente nudità svelata dalla violenza.
Nei giorni successivi, sui principali media del mondo si rincorsero disquisizioni sul rapporto fra Islam e morale, morale ed Africa, Africa e Somalia, Somalia e precedente occupazione italiana, bellezza muliebre e pratica dell'infibulazione. Tutto finché emerse la semplice verità: la povera Venere nera aveva afferrato un pacco di pasta lanciato dai “soccorritori”, e tutti gli altri volevano prenderglielo.
Immagini e fatti
Molti considerano la guerra del Vietnam come un vero spartiacque, quanto alla cultura ed alla gestione della propaganda bellica. Fino a quel momento la logica del vedere, vagliare, raccontare era rimasta prevalente, quanto meno dal punto di vista formale. Le forze armate americane erano costrette a favorirla anche quando la presenza dei reporters era diventata scomoda, fino al breve e declinante periodo in cui il generale Westmoreland tentò di imporre restrizioni che l'intera stampa statunitense ritenne inaccettabili.
A mio modo di vedere, è invece nella guerra del Golfo (e molti anni dopo, molto più intensamente, in quella del Kosovo) che le nuove linee della propaganda hanno preso ad affermarsi. Ho assistito ad entrambi i conflitti per conto de “La Stampa”, spesso dalle retrovie, qualche volta nell'epicentro dei fatti, a Baghdad anziché Gerusalemme, a Pristina piuttosto che a Belgrado. Eppure, quasi sempre e pressoché dappertutto, in primo luogo mi sono trovato dinanzi ad uno schermo televisivo, prima di aver assistito ai fatti se avevo potuto farlo oppure, anche se li avevo vissuti in prima persona, per “verificarli”.
Eccoci ad un'altra parola-chiave dell'informazione contemporanea: “verifica”. Che non significa più controllo della rispondenza fra fatto e reportage, notizia e realtà presumibile. Piuttosto, solo verifica del fatto che anche altri giornali siano pronti a pubblicare la storia nei medesimi termini. E soprattutto, che i termini siano quelli riassunti poco prima nel principale notiziario televisivo.
Essenzialmente, la nuova frontiera del giornalismo di guerra consiste nell'accordarsi sul medesimo modello di realtà virtuale, meglio se preconfezionato. L'importante non è più che un fatto, un resoconto, una storia siano veritieri, originali o illuminanti. Si può anche pubblicare una gigantesca bufala, l'importante è di non essere i soli a farlo.
L'arresto di Slobodan Milosevic
L'anno scorso, in un giorno di primavera, suggerisco alla mia redazione di muovermi da Skopje a Belgrado: in Macedonia la guerriglia albanese vive una fase di stanca, mentre in Serbia si annunciano novità. L'ex presidente Milosevic (che poche settimane prima mi aveva concesso una rara intervista) è libero ma gli Stati Uniti pretendono il suo arresto. Giungo a Belgrado proprio mentre reparti speciali della polizia cominciano a circondare la villa di Slobodan.
Avevo smesso di fumare, in quel periodo, e mi sentivo molto orgoglioso del successo. Quella notte, ad un certo punto, mi scoprii con una sigaretta accesa in bocca e due in entrambe le mani. Vivevo una sorta di incubo: ero lì, vedevo le cose che stavano accadendo, raccontavo alla mia redazione che Milosevic non era stato arrestato, mentre agenzie e televisioni di tutto il mondo dicevano il contrario, con tanto di particolari. Quattro fuoristrada erano usciti dalla villa, l'uomo era già in carcere, da tutta Europa i leaders politici si congratulavano per l'operazione. Perfino in Italia i programmi televisivi della notte erano stati interrotti dall'annuncio dell'arresto.
Intorno alla mezzanotte, in perfetta buona fede, chi guidava il mio giornale pensò che io fossi confuso, ubriaco o chissà cos'altro. Per mantenere intatta la mia tesi ed uscire con un titolo che smentiva il diluvio internazionale di informazioni fu necessario un atto di fiducia (e di coraggio) del mio direttore. Il giorno dopo “La Stampa” fu l'unico giornale italiano, forse europeo, a raccontare che Milosevic era ancora libero. Eppure quello non fu un successo.
Informazione dissociata
Di fronte ad uno schermo televisivo, l'inviato di un giornale è nelle medesime condizioni di qualsiasi persona che accenda l'elettrodomestico seduto nella poltrona di casa. Una differenza ancora esiste, ma è sempre meno sensibile: “vivendo” i luoghi, seguendo lo svolgersi quotidiano degli eventi ed il caotico accavallarsi delle notizie, al cronista è stato più facile in questi anni avvedersi di una frattura che inizialmente era minima e poi si è fatta sempre più evidente, fino ad allargarsi come una crepa che devasta e deforma le fondamenta dell'informazione.
Questa crepa ha un nome ormai codificato: si definisce “Fattore d'Inadeguatezza Televisiva”.
Cerchiamo di rimanere agli elementi concreti, senza inseguire ideali poco realistici. Da giornalista di lungo corso qui non intendo riaprire l'insolubile questione della verità, meglio delle cose che ci piace vedere o leggere, e meno ancora della banale rispondenza fra significato delle cose e loro rappresentazione televisiva. Mi limito a considerare un aspetto ancora più terra-terra del prodotto informativo: la totale impossibilità dei networks di elaborare sequenze di fatti ed immagini per trasformarle in dati significativi.
Che per più dell'ottanta per cento della popolazione mondiale la televisione sia unico mezzo d'informazione, è un dato di fatto. Inevitabile è dunque ricavare il corollario che se quel mezzo è totalmente inadeguato al compito svolto, quell'ottanta per cento della popolazione forma le sue opinioni sulla base di immagini quasi sempre eccentriche rispetto a ciò che dovrebbero descrivere.
I tempi sempre più frenetici dell'informazione ed il vertiginoso crescere dei suoi costi hanno prodotto una verità banale, eppure ineludibile: il meccanismo delle news divora sé stesso, e dunque tentare di collocarlo in un ambito diverso, in una dimensione più nobile o di maggior credibilità, è semplicemente inutile. Molto più rilevante è invece la quotidiana rinuncia dei networks a collocare immagini o storie in un qualsiasi contesto.
Il contesto - storico, politico, economico - sarebbe faticoso da costruire, ricco di incognite e comunque destinato a consumarsi nella storia o nelle immagini immediatamente successive.
Ribadiamo dunque il punto di fondo: l'ottanta per cento dell'opinione pubblica mondiale viene formata da una “non-informazione” legata alla forza dell'immagine piuttosto che al potere dei fatti. Teniamo sempre a mente il fatto che quasi sempre le sequenze televisive sono del tutto avulse dal quadro cui dovrebbero riferirsi. Dipendono dal coraggio dei cameramen, dalla situazione in cui essi si trovavano, dall'efficacia dell'inquadratura.
Insomma, come già hanno detto studiosi ben più autorevoli, “la comunicazione non comunica”. O quanto meno non comunica più.
Se si parte da questo assunto, ogni genere di disinformazione o propaganda sui teatri di guerra devono cambiare natura ed obiettivi, metodi e stili. Scorrendo alcuni eventi di cui sono stato diretto testimone ho creduto di poter ricavare alcune linee-guida di questa nuova attività. Forse, partendo da alcuni casi concreti anche al lettore sarà più facile individuarle.
Timisoara
Il colpo di Stato mascherato da rivolta popolare che nel dicembre dell'89 detronizzò in Romania Nicolae Ceaucescu conquistò supporto mediatico all'antivigilia di Natale, con le celebri immagini dei “morti di Timisoara”.
Ecco un caso in cui la propaganda (alquanto grossolana, ma per qualche momento efficace) seguiva le ondate migratorie dell'informazione. Con l'inizio degli scontri la maggior parte dei giornalisti occidentali era entrata in Romania attraverso il nord della Jugoslavia, dunque Timisoara (o Temisvar, nella dizione ungherese) era il solo luogo dove in quel momento si potesse colpire la loro fantasia.
Autori del “colpo”, deciso in emergenza, furono due colonnelli dell'esercito in lotta con i comandanti della Securitate. Ceaucescu a Bucarest era ancora nascosto, s'illudeva di resistere, l'appoggio delle forze armate era ancora incerto. Dunque, tredici cadaveri vennero tirati fuori dalla “morgue” cittadina, rivestiti in fretta ed allineati in una piazza.
La prima notizia dall'eccidio giunse dalla Tanjug, agenzia jugoslava, che immediatamente dopo diffuse orribili sequenze televisive. Le immagini erano “tagliate” in un modo che avrebbe dovuto mettere in sospetto gli specialisti. Nessuno sfondo, alcun riferimento che potesse consentire verifiche. I morti, aggiungeva l'agenzia con precisione sospetta, erano già 4.632. E la rivolta era iniziata appena quarantott'ore prima.
Quell'immagine aveva comunque una forza devastante ed in qualche modo autentica: mostrava quali forme primordiali potesse assumere la violenza nella Romania di allora. Le sequenze fecero il giro del mondo.
Nell'opinione pubblica, per molti anni, è rimasta impressa la certezza che Ceaucescu fosse stato catturato e fucilato non per le lunghe malefatte del suo regime, ma per una strage mai avvenuta.
Guerra del Golfo
I bombardamenti dell'operazione Desert Storm hanno segnato il vero punto di svolta nei rapporti fra giornalista di guerra ed apparati informativi. Dall'inizio delle ostilità fino al momento dell'avanzata verso il Kuwait (quasi tre mesi dopo) i media di tutto il mondo si trovano di fronte ad una “non guerra” priva di uomini, avanzate, uniformi, reparti e vittime, sequenze ed immagini, testimoni, più o meno eroici comandanti. Breve: giornali e televisioni sono costretti ad arrangiarsi.
La situazione dal punto di vista dei cronisti è disperante: migliaia di loro cercano di passare il tempo a Dahrahn in attesa del briefing da cui ricavare le notizie di giornata. Anche peggio va per le televisioni, alla disperata ricerca di immagini: non ci si può muovere, non si può assistere a null'altro che alle manovre di reparti alleati.
Il “Trucco della Duna” non nacque in quei giorni, ma esattamente in quei giorni divenne moneta comune. Fino a quel momento nei codici giornalistici l'invenzione o il trucco (specialmente del collega concorrente) venivano bollati come indegni e tramandati poi per anni. Per esempio, si favoleggiava ancora del famoso inviato italiano che in Medio Oriente si era fatto riprendere ventre a terra, strisciando “a ridosso della linea del fronte” mentre la linea del fronte era nel giardino del suo albergo.
Con la guerra del Golfo invece, vista la generale penuria di immagini, il trucco diventa regola, la bufala si trasforma in invenzione a volte geniale ma - ciò che più conta - accettata da direzioni e redazioni, generalizzata, anzi sollecitata.
Ecco dunque squadre dei maggiori networks rincorrersi da una duna all'altra a seicento chilometri dal fronte pretendendo di essere sotto il fuoco degli iracheni, ed intervallando gli stand up con sequenze fornite dall'esercito. Famosa restò la frase di un inviato della Cbs: “Qui no: questa duna è mia”, lanciata ad un concorrente che voleva impadronirsi dello scorcio di sabbia con vista sui relitti di un vecchio carro armato.
Nello stesso momento anche i fotografi di guerra devono campare. Ed ecco fiorire alcune immagini non meno storiche di quella del famoso guerrigliero immortalato da Robert Capa nell'attimo in cui viene colpito.
Quell'immagine - si è scoperto dopo - durante la Guerra Civile spagnola fu provata e riprovata cento volte da Capa e dal poveretto (guerrigliero autentico ma vittima finta) che si gettò ripetutamente a terra sporcando la tuta immacolata. Sessant'anni dopo, al comunista iberico si sostituiva il cormorano.
Anche quella foto rappresentò un falso fortunato. È il gennaio del '91, in quella stagione nel Golfo Persico non ci sono cormorani (infatti il povero animale intriso di petrolio era stato ripreso dalla Reuter's nella primavera dell'83, durante la guerra Iraq-Iran) ma di fronte all'impatto dell'immagine ed alla prova degli ulteriori misfatti di Saddam Hussein nessun network, nessun giornale si lasciarono cogliere dai dubbi.
La forza dei fatti riusciva ad emergere ancora attraverso i servizi di Peter Arnett sulla Cnn e non perché Arnett fosse più bravo degli altri. Semplicemente, lui riusciva a trasmettere immagini più autentiche ed a volte orribili, come nel caso del rifugio centrato dalle “bombe intelligenti”. Anche lui doveva destreggiarsi con la propaganda (le donne velate che marciavano compatte impugnando mitra di legno, quella che cambiando colore del velo gridava “assassini” ora in inglese ora in francese, ma era sempre la stessa).
A guerra finita, una ricerca dell'ente americano per la diffusione radiotelevisiva concluse che le immagini circolate sulla guerra del Golfo avevano sistematicamente eluso gli avvenimenti principali del conflitto.
La guerra del Kosovo
Nel giorno in cui l'Alleanza Atlantica cominciò a bombardare la Jugoslavia mi trovavo a Pristina, e ne venni espulso a furor di popolo assieme a decine di altri giornalisti occidentali. Ci rifugiammo tutti in Macedonia, a Skoplje, da dove era più facile assistere all'arrivo di migliaia di rifugiati.
Esattamente in quelle ore gli schermi di tutto il mondo presero ad essere dominati da una figura nuova, quella di Jamie Shea, docente a Cambridge e nuovo portavoce della Nato. L'uomo, sempre sorridente, sempre sarcastico diede subito il tono alla campagna mediatica semplicemente eludendo, scartando, cancellando una parte della realtà, meglio se del tutto evidente.
Il primo problema dell'alleanza si presentava proprio dinanzi a quelle ondate di profughi, alla cui accoglienza tutti erano impreparati. Il rischio era che i media si concentrassero su questo elemento svelando un primo, sgradevole aspetto dell'impreparazione Nato.
Shea fu lestissimo a cogliere il pericolo ed a contrastarlo con una martellante campagna di “rivelazioni”. Gli albanesi fuggivano non dalle bombe, ma dai serbi. Non dal combinato effetto dei raids aerei e delle reazioni di bande paramilitari, ma solo dalle violenze ispirate da Belgrado, che pure fino a pochi giorni prima li avevano visti resistere più o meno in silenzio.
Rammento tre titoli di quei giorni, per tre giorni di fila: “Lo stadio di Pristina diviene campo di concentramento”, “I serbi rubano il sangue ai piccoli albanesi” (in teoria, nell'intento di costituire scorte di plasma per i soldati feriti) ed, ultimo, “Tutta la leadership albanese è stata eliminata”.
Quanto alle altre informazioni era difficile controllare, pur sapendo ad esempio che lo stadio di Pristina sorge in pieno centro, in una conca visibilissima dalle case vicine e dunque poco adatta alla creazione di “campi”. Quanto ai leaders albanesi, però, riuscii ad agganciare il telefonino del segretario di Ibrahim Rugova, il quale mi confermò come sia Rugova che gli altri esponenti politici fossero preoccupati ma vivi.
Bene, anche quell'intervista annegò nella valanga dei titoli dettati dalle conferenze stampa serali. Dietro le scelte di Jamie Shea c'era una scelta precisa: briefings durante il giorno, con una serie di informazioni più o meno interessanti ma una notizia-slogan buttata lì, quasi per caso, durante l'ultimo incontro della sera. Quasi sempre si trattava di fatti incontrollabili, attribuiti a “fonti informate” e comunque forniti troppo tardi perché qualcuno, anche avendone voglia, potesse verificarli. Però “facevano titolo”, e tanto bastava.
A guerra finita, Shea raccontò in alcune interviste di aver introdotto uno stile nuovo nella propaganda di guerra: non più fatti piegati alle esigenze belliche ma “storie”, nel senso di immagini o proiezioni che potessero soddisfare un apparato d'informazione a caccia di sensazioni forti. Era il rapporto fra propaganda e media a cambiare: non più un'informazione professionalmente orientata e destinata ad un mercato professionale, ma pura fantasia sovrapposta ad un wargame come l'ennesima figura da abbattere cliccando col mouse.
In questo quadro non è neanche strano che la lunga guerra di Jugoslavia si sia conclusa senza un bilancio ufficiale di successi e danni inflitti al nemico. Qualche mese fa ne accennò brevemente Newsweek, in un articolo senza alcun seguito.
Il bilancio delle migliaia di missioni Nato sul territorio jugoslavo - quello reale, intendo - era stato di 600 militari uccisi a fronte di 4.400 civili. I bombardamenti d'alta quota non consentivano ai piloti di essere troppo precisi quanto a natura e caratteristiche dei targets. Dunque dalle centinaia di carri armati e mezzi blindati che, in base ai bollettini ufficiali, erano stati distrutti si scese a cifre ben più modeste.
Ancora oggi si discute del fatto se i carri armati della Jna colpiti durante le migliaia di missioni Nato siano stati quindici oppure sedici.
Conclusioni
Dal punto di vista di chi deve occuparsi delle aree di crisi per conto di un giornale o di una tv, la progressiva “chiusura” dei teatri di guerra ai professionisti dell'informazione lascia spazi sempre più esigui. Ormai la vecchia figura letteraria dell'inviato di guerra che non esce mai dal suo comodo albergo, si realizza e trova senso compiuto nell'attività quotidiana (e sempre più apprezzata) cui sono costretti gli inviati televisivi.
Può sempre accadere, certo, che a prezzo di rischi anche molto alti qualche giornalista isolato (ed in genere, privo del supporto delle telecamere) possa imbattersi in una realtà scomoda o in una storia che smentisce le versioni ufficiali. Ma a parte la rarità di questi eventi il dettaglio dissonante o la notizia “eretica” emergeranno sempre dopo, a giochi fatti, o quando la macchina della propaganda avrà già influenzato a dovere l'opinione pubblica interna.
In qualche modo le pecche dell'informazione stanno anche influenzando il lavoro dei professionisti della propaganda. Se le cose dovessero continuare così, fra non molto potrebbe non esserci più bisogno di un trust di cervelli da impegnare in un compito così impegnativo. L'informazione si droga da sé.
Resta una sola variabile, che pure torna a presentarsi durante ogni conflitto e che può riaprire tutti i giochi. Nella Guerra del Golfo la variabile fu “interna”, rappresentata dalla stessa Cnn, e forse il regime di Baghdad non fu lesto a coglierne fino in fondo le opportunità.
Nella guerra del Kosovo, la voce stonata era quella alquanto flebile della Rts, o “Radio Televisija Srpska”. L'emittente era poco potente e dotata di mezzi scarsissimi eppure la sua pericolosità doveva esser ritenuta enorme, se ad un certo punto del conflitto mediatico i jet della Nato ricevettero l'ordine di bombardarla. La distruzione delle tv del nemico era stata forse contemplata nei manuali, eppure mai attuata prima della guerra moderna.
L'ultima voce fuori dal coro è stata quella di Al Jezira durante i bombardamenti dell'Afghanistan, ed anche in quel caso un paio di interviste ad Osama Bin Laden hanno seminato panico nell'apparato d'informazione occidentale. Alcuni Paesi, come la Russia, hanno colto fino in fondo questa contraddizione e si attrezzano per allargarla. Mosca ha recentemente trasformato l'agenzia Comtex in una struttura davvero efficace e professionale. Sul piano televisivo l'impresa è molto più complessa, ma sembra stia partendo.
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